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LA COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI parte prima

Le organizzazioni, le associazioni e le società scientifiche che a vario titolo si occupano di malati affetti da decadimento cognitivo, hanno cercato di determinare nel corso degli anni delle fondamenta comuni e praticabili per affrontare al meglio le criticità che comporta la comunicazione della diagnosi di Alzheimer in termini di cosa dire, come dire, quando dire e non da ultimo chi deve dire.

Molti sono i dubbi e le domande:
• È giusto farlo?
• Quando è il momento migliore?
• Che stati d’animo può provocare?
• E se volesse non saperlo?
• Riuscirà a capire?
• Avrà bisogno di sostegno?

In generale, le Linee-guida prodotte nel corso degli anni concordano nel ritenere la persona con malattia di Alzheimer il destinatario prioritario della comunicazione, il quale deve avere la possibilità di manifestare le sue scelte e di coinvolgere consapevolmente il suo nucleo familiare. Tuttavia, la mentalità corrente nel nostro paese è quella di preservare il più possibile la persona dai traumi emotivi e spesso sono i familiari stessi che chiedono di tacere.
Studi europei ci dicono che l’83% dei familiari non desidererebbe che il loro caro fosse informato.

Gli studi sugli effetti dovuti alla tardiva comunicazione della diagnosi di demenza sulle persone interessate e sui caregiver sono carenti, anche se è verosimile che la percezione che “qualcosa non va” abbia conseguenze negative, in termini di incertezza, ansia, paura e depressione sia sui pazienti che sui familiari. Pertanto, quando la diagnosi viene effettuata, gli interessati spesso riferiscono un senso di sollievo. Sembra che i pazienti indenni da alterazioni cognitive e i pazienti con lievi disturbi di memoria, nella grande maggioranza dei casi (70-90 %), preferiscano essere informati della diagnosi. Una mancata comunicazione può inoltre disorientare, confondere la persona e rompere il legame di fiducia con il medico. Al contrario sembra che conoscere la diagnosi non cambi i sintomi depressivi, ma faccia diminuire significativamente l’ansia, con probabili ricadute sul senso di autoefficacia.

Tra le ragioni a favore della comunicazione della diagnosi, vi è il principio di autonomia, che implica il diritto del paziente a prendere decisioni relative alla propria salute in modo autonomo. Tale principio è sicuramente applicabile a pazienti ‘competenti’, ovvero in grado di comprendere le informazioni diagnostiche.
Sebbene definire quando un paziente sia o meno competente rimanga controverso, laddove questi non risulti capace di comprendere le informazioni, la responsabilità circa i percorsi di cura e le decisioni contingenti vengono per lo più delegate al caregiver, sebbene il paziente non debba essere escluso dal processo decisionale.
La consapevolezza da parte del paziente della diagnosi e della prognosi in un momento nel quale si trova ancora in possesso di sufficienti capacità cognitive consente allo stesso di prendere parte ai piani relativi alla propria cura, alle decisioni di fine vita, ed a protocolli sperimentali innovativi, nonché a training di riabilitazione cognitiva con una motivazione consapevole, garantendo tra l’altro una maggior efficacia degli stessi interventi (Holt, 2011).
Non va inoltre sottovalutata l’importanza per il paziente di veder riconosciute le difficoltà che sperimenta nel quotidiano, e di dare loro un senso, nonché un’etichetta verbale.
All’opposto, tra le ragioni contrarie alla comunicazione della diagnosi troviamo il principio di non nuocere al paziente. La consapevolezza di essere colpiti da una malattia a esito infausto potrebbe innescare conseguenze psicologiche negative, quali ansia, depressione, sentimenti di disperazione fino a tentativi di suicidio.
Pratt e Wilkinson (2001) hanno tuttavia rilevato che pazienti informati della diagnosi provino un senso di validazione della propria esperienza nell’apprendere la verità circa la propria condizione medica. In tale ottica, la negazione di malattia comporta ulteriori danni, in quanto i pazienti possono sentirsi ancora più confusi per la distanza tra le difficoltà che incontrano nel quotidiano ed il messaggio rassicurante da parte del medico, aumentando così i livelli d’ansia (Whitehouse, Frisoni e Post, 2004).

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